“E tutti noi abbiamo un tale disperato bisogno di provare qualcosa, qualunque cosa, che ci buttiamo continuamente gli uni sugli altri, affrettando la fine dei nostri giorni.”
Californication
Oggi parliamo del mio esagerato e irrecuperabile autolesionismo. Perché sono sicura di non essere sola, quando continuo a fare, provare, rifare, qualcosa che non solo mi sta facendo del male, ma che me ne farà, consapevolmente, una quantità spropositatamente maggiore.
So che nel mondo ci sono tanti piccoli esserini autolesionisti e recidivi come la sottoscritta. E so anche che siete così perché volete sentirvi in un altro modo. O perché volete semplicemente sentirvi.
Nella mia brevissima vita da ventunenne ho realizzato che sentirsi vivi è l’unica cosa che conta – anche più della felicità.
Perché ne abbiamo bisogno come l’aria. E forse di più.
E non lo dico perché la felicità per me è più o meno come un’equazione di fisica quantistica irraggiungibile, ma perché una volta mi sono persa. Persa per davvero, nel tentativo di risolvere quell’equazione che boh, chiedo l’aiuto del pubblico, telefonata a casa, 50 e 50, ma niente. Il pubblico si è addormentato, a casa non risponde nessuno, e il computer si è impallato.
E ho finito per impallarmi anch’io.
Poi in qualche modo mi sono rimessa a posto, cicatrici permettendo.
E quando ti ritrovi sei disposto a tutto pur di non perderti di nuovo. Pur di non perderti più.
E allora parti alla disperata e affannosa ricerca di qualcosa in grado di colpirti. E se non ci riescono più nemmeno i sorrisi di chi ami, o quelli di chi ti ama, o almeno di chi ci prova, e alla fine magari ti ama pure, ma a modo suo – sempre a modo suo, mai tuo, o vostro, suo, sempre, allora ti butti nell’unica cosa che sai ti farà provare qualcosa.
Il dolore.
Il bungee jumping non puoi farlo perché soffri di vertigini, imitare Man vs Food neanche perché sei perennemente a dieta, escludiamo anche spaccare un intero set di piatti perché potrebbe rovinarsi il nuovo smalto di Dior in limited edition, buttarti in un’avventura su un’isola deserta mollando tutto no perché poi chissà che fine fanno i vestiti nell’impatto col mare e poi fa freddo e (si spera) non hai grovigli di peli sul corpo che invece riscalderebbero un uomo, e non puoi nemmeno ritirarti sottoterra in letargo perché a te fanno schifo gli insetti, niente possibilità di shopping illimitato, dato che, come tutte le cose migliori della vita, anche i soldi finisco, (ma quanto è difficile essere donna?) E QUINDI?
E quindi il dolore rimane sempre una garanzia. Un po’ come la consapevolezza che non ti entrerà mai una 38.
Quello ti trascina sempre giù. Ed ecco che parte la disperata e affannosa ricerca di qualcosa. Di risalire.
Rialzarti diventa il tuo scopo. Almeno l’hai trovato, quel qualcosa. E ti tuffi dentro a quel male che parte dal centro del petto, e che scende giù, fino alla pancia, e finisci per sentirlo anche nelle ossa, e quando sorridi ti chiedi perché lo stai facendo. Eccolo, quel qualcosa da combattere.
Dentro a quell’ammasso di ricordi mai vissuti, ti ci butti a capofitto, a strapiombo, o a bomba. Io a bomba è un po’ che non mi butto perché l’ultima volta mi sono fatta così tanto male che ancora, a distanza di anni, ne porto i segni addosso. Anche se non si vedono più, però io so che sono lì. Lo so, capite?
Ad un certo punto ti accorgi che quel mal di testa e mal di tutto è forse un po’ troppo. Ma non sai come sgattaiolare fuori da quella stanza buia senza tirare giù tutto e peggiorare le cose, perché se c’è una cosa di te che non riuscirai mai a cambiare è l’essere maldestra, e poi, si sa che le cose più difficili da cui uscire sono quelle che ci autocreiamo noi stessi.
E mentre sei lì, al buio, con l’iphone che si è scaricato mentre battevi quella simpaticona che in seconda media ti ha rovesciato della fanta sul tuo vestito a fiori, ti immagini tutto quel dolore come ad una bacinella, una bella grossa, piena di vomito e vodka, e ti ritrovi a pensare che non riesci più a trovare l’interruttore della luce quando ti svegli in piena notte senza un motivo preciso, però ti svegli, e immagini come sarebbe se arrivasse qualcuno a togliere un po’ di quella melmaglia dalla bacinella, un po’ grande come una tazzina da caffè, va bene, una tazzina, non è accontentarsi, è fare piccoli passi alla volta.
E pensi al volto di una persona così pazza, e all’ammasso di ricordi mai vissuti, poi torni in te.
Quel volto non riesci a vederlo, e realizzi che dovresti imparare a salvarti da sola senza trascinarti dietro tutti quei segni che hai addosso. Che forse un giorno potresti persino riuscire a sentirti bene senza stare male.
I pacchetti all inclusive d’altronde non vanno più di moda.
Però ogni tanto penso che sarebbe davvero una figata essere la Karen di qualcuno.
(E non dicevo figata dalla prima volta che vidi un porno, a undici anni.)
P.s. per me stessa:
Devo ricordarmi di smettere di allontanare chi mi circonda, solo per vedere chi lotta per restare, perché tanto non lotta nessuno.
Stando ad una statistica elaborata dalla sottoscritta in questa domenica col sole fuori e tanto alcol dentro, 9,8 persone su 10 che se ne vanno, si giustificano autoincolpandosi.
Come se io stessi meglio sapendo che tu sei un coglione.
Devo anche ricordarmi di smettere di sentirmi superiore al resto del genere umano e di passare dall’altro lato della vita, quello, appunto, dei coglioni, così, per sentire come ci si sente a voltare le spalle e dimenticare.