Diario dalla trincea.
Già solo a scrivere così mi sento più fortunata, a considerare trincea un divano.
Ai nostri nonni è andata peggio.
Sesto giorno.
Sto tastando con mano come sarebbe la mia vita senza tennis. Una vita senza aria. Letteralmente.
Io, che la distanza di sicurezza con le persone la tengo già di norma, oggi vorrei abbracciare chiunque.
In questi giorni ho editato le foto degli ultimi due shooting.
Ho mandato un preventivo per un matrimonio.
Ho stressato Davide fino all’inverosimile.
Ho il ciclo da quattro giorni che mi sembrano trentadue.
Faccio oltre un’ora di tapis roulant tutti i giorni, altrimenti mangiare tacchino, quorn e riso basmati per due mesi non ha avuto alcun senso. Anche perché sto mangiando plumcake al cioccolato come se non ci fosse un domani (perché, fino a prova contraria, un domani potrebbe anche non esserci).
Mi sono addormentata guardando Basic Instict (lo so, lo so).
Ho visitato virtualmente qualche museo sparso nel globo, e mi sono ricordata di quanto mi manchi Parigi.
Ho fatto shopping su Yoox, con la scusa di trovare dei vestiti per i vari matrimoni che ho quest’estate.
Ho ordinato un detergente alla soia della Fresh.
Dopo un anno di onorato servizio, sto pensando di sostituire la borraccia.
Ho fotografato i fiori del mio giardino al tramonto.
Ho in programma di rivedermi per la dodicesima volta Chiamami col tuo nome, stavolta in lingua originale. E so che piangerò tantissimo, come tutte le altre undici volte.
Sto bevendo tanti “Energise me” e “Happy me”, the bio e senza caffeina che mi ha regalato la compagna di mio cugino a Natale, ma di energise e di happy vedo ben poco. Ma tant’è.
Sto finendo il programma della patente per conto mio. Stefano dice che non è un caso se, proprio mentre ho deciso di darmi alla guida, è scoppiata una pandemia mondiale, e un po’ forse gli do ragione.
Sto cercando da tre giorni di mandare un’e-mail molto importante, che però continua a tornarmi indietro. Il problema è che non posso chiamare, perché chi la deve ricevere è in Lituania. E non so che lingua parlino in Lituania.
Cose così.
Poi penso.
Tanto. Troppo.
Argomento numero uno: Enrico.
Ho ritrovato dei video che ci ha fatto Chiara la sera che ci siamo conosciuti.
Ad oggi, dopo dieci mesi che non so più niente di lui, credo che fossimo più simili di quanto volessimo ammettere.
Maledetta quarantena.
Se non mi avesse bloccato su Whatsapp gli scriverei.
Gli direi che mi dispiace che dovrà passare da solo il suo trentesimo compleanno, e in generale tutto il mese, in quel buco di casa.
Gli direi anche che lo so che a San Valentino mi ha spiato. Li ho gli occhi.
Gli chiederei se si sente più in pace con se stesso sapendo che sono ancora single.
Una parte di me vorrebbe abbracciarlo e dirgli che andrà tutto bene. E poi vorrei essere abbracciata, e sentirmi dire che andrà tutto bene.
Però Enrico non c’è. Non c’è Francesco, né Lorenzo, né tutti gli altri.
L’unico ad esserci, come sempre, è R.
“Quando ti annoi, scrivimi.”
Solo per questo, se potessi, prenderei il primo aereo per l’Australia per abbracciarlo e dirgli grazie.
E, mentre mi manda meme di Alberto Sordi e altre cose simpatiche coronavirus inspired, non ho il coraggio di dirgli che arriva in ritardo di circa 36 ore.
Col jet-leg australiano al contrario.
Me le hanno già mandate in quindici.
Salterà il concerto dei The National, mi dice. Mi torna in mente una delle nostre prime conversazioni, a parlare di quale loro disco ci fosse piaciuto di più, sugli scalini all’Arco della Pace.
Era inizio aprile, avevo un giubbotto di pelle e un vestito di seta blu, con i pois, senza maniche.
“Qui non si rendono conto, mi salvaguardo da solo”, mi manda una foto di scorte di cibo in scatola, da far invidia a qualche serie post-apocalittica americana. E quella ipocondriaca della coppia ero io.
Raramente l’ho visto spaventato, e, alla fine della conversazione, sono io a cercare di rassicurare lui.
Ho pensato a quello che non ha funzionato tra di noi.
Tutto.
Ci penso da mesi. Da quando ci siamo ritrovati con un nuovo equilibrio.
Se mi mettessi ad elencare gli sbagli che abbiamo fatto in questi sei anni, finirei fra cento.
Eppure so che una persona che si incastra perfettamente a me come lui, non la troverò più.
Se mai esistono le anime gemelle, credo fermamente che lui sia la mia, ma, come mi ha insegnato Dawson’s Creek in tempi non sospetti, non finiamo mai con la nostra anima gemella.
E, ad oggi, dopo un percorso lungo, travagliato, e molto doloroso, mi dico che va bene così.
Se c’è una cosa positiva di Enrico è che mi ha permesso di capire che posso stare bene con qualcun altro che non sia R.
Che non devo scappare se qualcun altro riesce a farmi ridere.
Però lui resta sempre lì, in uno spazio in un angolo del cuore, solo suo.
Un posto che difenderò sempre, da tutto e da tutti.
Anche quando lo criticheranno, quando non capiranno, proteggerò sempre quel bene per me così prezioso.
I took my love and took it down
I climbed a mountain, I turned around
And if you see my reflection in the snow covered hill
The landslide brought it down
Oh, mirror in the sky, what is love?
Can the child within my heart rise above?
Can I sail through the changing ocean tides?
Can I handle the seasons of my life?